sabato 14 dicembre 2013

Leo Buscaglia- Vivere, Amare, Capirsi.

Leo Buscaglia (1924-1998) nacque in America da genitori italiani e fu il primo a tenere un corso sull'amore presso la University of Souther California e ciò gli è valso l'epiteto di "Dottore dell'amore".
Ho da poco iniziato a leggere Vivere, Amare, Capirsi ed ogni sua pagina è ricca di significato. Inzierò con le frasi che mi sono piaciute di più delle prime 70 pagine.

Nessun insegnante ha mai insegnato
qualcosa a qualcuno. La gente in fondo è autodidatta. La
parola «educatore» deriva dal latino «educare», verbo simile
a «edùcere» che significa guidare, condurre. E appunto questo
l'educatore deve fare: guidare, essere entusiasta, capire se
stesso, mettere tutto questo sotto gli occhi degli altri e dire:
«Guardate, è meraviglioso. Venite a mangiare con me».

Pagina 17.

Silberman dice: «Ciò
che manca è l'affetto. Le scuole sono luoghi senza allegria e
senza vitalità che soffocano i giovanissimi e distruggono la
creatività e la gioia». Dovrebbero essere i luoghi più festosi
del mondo perché, sapete, la gioia più grande è imparare.
Imparare qualcosa è fantastico perché ogni volta che imparate
qualcosa, diventate qualcosa di nuovo. Non potete
imparare senza essere costretti a riorganizzare tutto intorno
alle cose nuove che avete appreso. Perciò, vorrei parlarvi un
po' di ciò che credo sia un essere umano ricco d'amore.
Potrei dire «l'insegnante ricco d'amore», ma non mi piace.
Vedete, non si è soltanto un insegnante, si è un essere umano.
I bambini riescono a identificarsi con la gente, con gli esseri
umani. Hanno invece molte difficoltà nell'identificarsi con
gli insegnanti. Quando incominci a comportarti da insegnante,
in un ruolo fisso, ti sorprendi a dire una quantità di cose
che non avresti mai voluto dire.

Pagina 19.

«Non posso insegnarvi quello che non so» è una frase
troppo facile e troppo stupida. Eppure dobbiamo dirla. Se
devo presentarmi davanti a un gruppo di persone, devo
sapere qualcosa o avere qualcosa da dire. Se devo tenere una
lezione sulle incapacità di apprendimento, è necessario che
sappia qualcosa delle incapacità di apprendimento.

Pagina 20.

Immaginate che cosa sarebbe il mondo se ciascuno di voi
fosse incoraggiato a diventare un essere umano unico. Sapete
che cosa penso? Che l'essenza del nostro sistema d'educazione
sia rendere ciascuno eguale a tutti gli altri. E quando ci
siamo riusciti ci consideriamo fortunati. Succede sempre
così, lo vedete anche voi. «Non m'interessa la tua unicità.
M'interessa sapere se sono riuscito a darti me stesso; se tu sai
imitarmi come un pappagallo mi considero riuscito come
insegnante.»

Pagina 22.

Ognuno è eguale a tutti gli altri, e tutti sono contenti. R.D. Laing dice:
 «Siamo soddisfatti quando abbiamo reso i nostri figli simili a noi: frustrati,
malsani, ciechi, sordi, ma con un alto quoziente d'intelligenza».

Pagina 25.

Noi pensiamo che essere adulti significhi
essere indipendenti e non aver bisogno di nessuno. Ecco
perché stiamo tutti morendo di solitudine. Com'è meraviglioso
sapere che gli altri hanno bisogno di noi! E com'è splendido
avere bisogno e poter dire a qualcuno: «Ho bisogno». Io
non esito a dire che ho bisogno di tutti voi, di ognuno di voi.
Il guaio è che le nostre vite si incrociano solo occasionalmente.
Ma le esperienze più grandi della mia vita le ho avute
quando due vite si intersecavano e due esseri umani riuscivano
a comunicare.

Pagina 27.

I filosofi e gli psicologi ce lo ripetono da anni. «Tu non hai
altro che te stesso. Perciò devi diventare la persona più bella,
tenera, meravigliosa, fantastica del mondo. E allora sopravviverai
sempre.» Ricordate la Medea della tragedia greca?
Ricordate la battuta di quella splendida tragedia, quando
tutto è perduto e l'oracolo le chiede: «Medea, che resta?
Tutto è distrutto, tutto è finito»? E Medea risponde: «Che
resta? Resto io». Che donna!

Pagina 28.

Basta che siate comunisti
e vi cacceranno dalla città. E non sapete neppure che cosa
significhi. Succede la medesima cosa con le parole «Negro»,
«Messicano», «Protestanti», «Cattolici», «Ebrei». Basta
un'etichetta e si crede di sapere tutto su quegli individui.
Nessuno si prende mai il disturbo di chiedersi: «Piange?
Prova qualcosa? Capisce? Ha speranze? Ama i suoi figli?».
Parole.

Pagina 32.

Una cosa interessante,
a proposito delle etichette, è che a quel tempo la mafia
era scatenata e tutti gli italiani erano considerati mafiosi. Mi
chiamavano «dago» o «wop». Sapete, gli altri bambini mi
dicevano: «Vattene, lurido "wop"». Ricordo che andai da
mio padre e gli chiesi: «Papà, che cos'è un "wop"? Che cos'è
un "dago"?». E lui mi disse: «Non badarci, Felice. Non
prendertela. Sono nomi che usa la gente. La gente ti chiama
così, ma non vuol dire niente».
Ma io me la prendevo, perché era un modo per tenere le
distanze, e quelli non imparavano mai nulla su di me chiamandomi
«wop» o «dago». Non sapevano, per esempio, che
nel «vecchio paese» mia madre era una cantante d'opera e
mio padre era cameriere. La nostra era una famiglia molto
numerosa, quanto bastava per coprire tutti i ruoli di un'opera

Pagina 33.

Se volete conoscermi, dovete entrare nella mia testa, e se io voglio
conoscere voi, non posso dire: «Quella è magra. Quella è
grassa. Quella è ebrea. Quella è cattolica». È ben di più. E
quelli di noi che si interessano dell'educazione speciale conoscono
bene queste maledette etichette.

Pagina 35.

Io penso inoltre che un individuo ricco d'amore sia spontaneo.
La cosa che più vorrei a questo mondo è vedervi
ritornare alla spontaneità iniziale, la spontaneità di un bambino
che diceva ciò che provava e pensava e si adattava
facilmente a ciò che pensavano e sentivano gli altri. Ritornare
a guardarsi l'un l'altro, veramente. Siamo dominati a tal
punto da quello che gli altri ci dicono che dobbiamo essere,
da aver dimenticato chi siamo.

Pagina 38.

Mi diverto sempre, quando devo parlare a gruppi ufficiali.
Prima di entrare, so già come andranno le cose. Io ho la
mania di toccare la gente. È spontaneità, sapete. Ci credo.
Quando tocchi qualcuno, capisci chi è.

Pagina 39.

Ma le esigenze più importanti sono quelle che riguardano la
nostra personalità... il bisogno di farci vedere, di farci conoscere,
di ottenere riconoscimenti, di realizzare qualcosa, il
bisogno di goderci il nostro mondo, il bisogno di gioire delle
meraviglie della vita, il bisogno di assaporare quanto sia
meraviglioso essere vivi. Ma abbiamo dimenticato come
guardarci l'un l'altro: non ci guardiamo, non ci ascoltiamo,
non ci tocchiamo; il cielo ci scampi. E questo vale persino nei
riguardi dei nostri figli. Secondo le regole della nostra cultura,
quando un bambino ha tre anni lo facciamo scendere
dalle nostre ginocchia e diciamo: «Non farlo, è roba da poppanti.
Non devi farlo, con tuo padre. Scendi dalle mie ginocchia,
come ti permetti di baciare tuo padre quando hai già tre
anni? Ormai sei un uomo. Gli uomini non si baciano».

Pagina 42.

Se entrerete in una classe e direte: «Questi ragazzini
sono stupidi», essi non impareranno mai niente. Entrate
e dite tra voi: «Questi bambini vogliono e possono imparare;
è compito mio accompagnarli a quella tavola apparecchiata e
mostrar loro che è fantastica». Tutti noi abbiamo bisogno di
successo e di stima. Dobbiamo essere in grado di fare qualcosa
e la cosa più grande è la gioia del proprio lavoro.

Pagina 46.

Abbiamo bisogno che ogni tanto qualcuno ci dica:
«Sei magnifico, ragazzo mio. Ben fatto. Molto bene». E non
dimenticatelo: se ne abbiamo bisogno noi, ne hanno bisogno
anche i nostri allievi. Sarebbe ora di smetterla con questa
storia dei «ventisette» errori. Errore. Errore. Errore. Errore.
Errore. Restituire i compiti con tutti i segni di «errore». Non
sarebbe meglio segnare le cose che vanno bene? «Hai messo
due cose che vanno bene, Johnny. Bravo!» Non sarebbe
meglio far sapere agli allievi che possono far bene qualcosa, e
partire da lì? È altrettanto semplice dare risalto a quello che
va bene, e vi affatichereste meno il polso.

Pagina 47.

Moltissimi cercano di farci diventare ciò che vogliono;
dopo un po' ci arrendiamo e concludiamo che forse è questo
ciò che viene chiamato «adattamento». Il cielo non voglia!
Qualche volta, qualcuno si ribella e dice: «No! Non voglio
diventare quello che vuoi tu. Io sono cosi e cosi resterò. Io
voglio diventare ciò che sono».
A volte mi domando: per quanto ci ribelliamo, siamo
veramente ciò che siamo, o siamo soltanto ciò che ci dicono
che siamo?

Pagina 50.

Possiamo fare la stessa
cosa ripetendo continuamente a qualcuno: «Sei bello, sei
bello, sei bello». Se ve lo dice un certo numero di persone,
comincerete a comportarvi come se foste belli. Assumerete
un portamento più eretto, sarete fieri di voi. Ma «Sei brutto,

sei brutto, sei brutto» vi indurrà a piegarvi, a farvi più piccoli,
fino a quando diventerete brutti davvero. «Sei sciocco!
Sei stupido!» vi faranno diventare sciocchi e stupidi.

Pagine 52-53.

C'è un'altra teoria esistenzialista che sostiene: «Io devo essere,
perché ho fatto qualcosa. Ho creato qualcosa, dunque
sono». Eppure, noi non vogliamo farlo, perché abbiamo

paura che non andrà bene, che non incontrerà l'approvazione
degli altri. Se vi viene l'impulso d'imbrattare d'inchiostro
un muro, fatelo! Siete voi: è lì che siete in quel momento, e
dovete esserne fieri. Dite: «È uscito da me, è la mia creazione.
L'ho fatto io, ed è bello». Ma noi abbiamo paura, perché
vogliamo che tutto sia perfetto. E vogliamo che i nostri figli
siano perfetti.

Pagine 55-56.

Ricordate? Vi mettevate tutti in
fila, e c'erano quei tizi grandi e grossi con il petto in fuori che
dicevano: «Scelgo te» e «Scelgo te». E vedevi che il resto della
fila spariva, e tu restavi ancora lì. Alla fine restavate in due,
tu e un altro piccoletto. E allora dicevano: «Va bene, prenderò
Buscaglia», oppure: «Prenderò il piccolo "wop"», e tu
uscivi dalla fila e ti sentivi morire perché non eri l'immagine
dell'atleta, non eri l'immagine della perfezione cui aspiravi.

Pagina 56.

L'altro giorno mi
trovavo su una spiaggia in compagnia di alcuni miei studenti,
e uno di loro ha raccolto una vecchia stella marina
disidratata e con molta delicatezza l'ha rimessa nell'acqua.
Ha detto: «Oh, è solo disidratata, ma quando assorbirà
l'acqua riprenderà a vivere». Poi ha riflettuto un po', e si è
rivolto a me e mi ha detto: «Sa, Leo, forse è questo, il
processo del divenire, forse arriviamo al punto in cui ci
inaridiamo, e ci basta un po' d'acqua per ricominciare».
Quando mi sono rialzato dalla sabbia, ho detto: «Oh!».
Forse è davvero tutto qui.

Pagine 60-61.

E così se non vi piace la scena in cui vivete, se siete
infelici, se vi sentite soli, se avete la sensazione che non
succeda niente, cambiate la scena. Dipingete un fondale nuovo.
Circondatevi di attori nuovi. Scrivete una nuova commedia...
e se la commedia non va bene, scendete dal palcoscenico
e scrivetene un'altra. Ci sono milioni di commedie...
tante quanti sono gli esseri umani.

Pagina 62.

Se ciascuno avesse anche una sola
persona nella sua vita che gli dice: «Ti amerò, indipendentemente
da tutto. Ti amerò se sei stupido, se scivoli e batti il
naso, se sbagli, se commetti errori, se ti comporti come un
essere umano... io ti amerò egualmente», allora la gente non
finirebbe negli ospedali psichiatrici. Dovremmo amarci così:
indipendentemente da tutto.

Pagina 63.

È la cosa più facile del mondo, essere se
stessi. La cosa più difficile è essere ciò che gli altri vogliono.
Non lasciatevi cacciare in questa situazione. Trovate voi
stessi, trovate ciò che siete, e mostratevi come siete. Allora
potrete vivere semplicemente.

Pagina 67.

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